Teoria della Mente: ecco cosa ci rende umani, insieme al linguaggio

La specie umana è sotto molti aspetti una specie straordinaria. Capace di elevarsi al di sopra delle altre specie grazie alle sue capacità mentali e razionali, costituisce un vero unicuum in Natura.

Spesso ci troviamo a chiederci, però, che cosa effettivamente ci renda umani. Tra le tante motivazioni, due spiccano maggiomente. Da un lato abbiamo il linguaggio. Solo noi umani abbiamo sviluppato delle aree cerebrali così estese deputate esclusivamente alla comunicazione intraspecie. Questo ci ha permesso di tramandare un patrimonio culturale notevole, di renderci consapevoli della nostra condizione di esseri umani. Ma non è solo grazie al linguaggio che facciamo nostre le pratiche sociali e le norme culturali. La seconda peculiarità in quanto homo sapiens, pur essendo presente in forma meno sviluppata in pochi altri primati, è la cosiddetta “Teoria della Mente”, meno nota nella sua accezione scientifica, ma di cui noi tutti abbiamo esperienza diretta ogni giorno.

Cos’è la teoria della mente

La teoria della mente è una teoria evoluzionistica, nata negli anni ’80. All’epoca si era notato come alcuni scimpanzé, nel corso di altri esperimenti, sembravano voler capire cosa volessero gli sperimentatori. Col susseguirsi degli studi gli scienziati conclusero che non si poteva parlare veramente di teoria della mente per questi primati.

Gli Scimpanzé hanno una teoria della Mente?
Gli studi sulla Teoria della Mente sono cominciati grazie agli studi sugli Scimpanzé. Per quanto sembrasse quasi potesse essere verosimile che questi primati possedessero capacità di mentalizzazione, si è concluso che così non fosse, o che almeno non fossero sufficientemente sviluppate

Al contrario, la specie umana sembra aver nel tempo sviluppato, a seguito di una serie di adattamenti evolutisi a seguito di particolari pressioni selettive poste dalla vita di gruppo, la rara capacità di attribuire contenuti di tipo mentalistico ad agenti esterni. Anche in questo costituiamo un vero e proprio unicuum, capaci, noi soltanto, di andare oltre le apparenze, oltre il manifesto, e ottenere un accesso alla mente altrui. Per quanto questo accesso sia solo mediato, e non diretto. Questa peculiare capacità viene definita “mentalizzazione”, e si tratta di una serie di processi impliciti ed espliciti che ci guidano all’interno del nostro contesto sociale. Spesso agisce a livello inconsapevole, ma è anche il motivo per cui riusciamo a attribuire ad altri degli stati mentali quali desideri, intenzioni, pensieri e credenze e di prevedere e spiegare il comportamento sulla base di queste inferenze.

Quando incominciamo a essere esseri mentali?

C’è un periodo particolare in cui possiamo pensare ai bambini come esseri mentali, ovvero capaci di percepire il mondo circostante come un ambiente di agenti intenzionali? Secondo alcuni studi sembrerebbe che tra i 5 e i 9 mesi, più precocemente di quanto penseremmo, i bambini comincino a esercitare la capacità di mentalizzazione. È stato dimostrato attraverso l’esperimento di Woodward (nel 1998), basato sui principi di abituazione e di violazione dell’aspettativa.

Esperimento Woodward su Teoria della Mente
L’esperimento di Woodward si basa sul paradigma di abituazione e di violazione dell’aspettativa: esposto ripetutamente a uno stesso stimolo un bambino reagisce solo quando accade qualcosa di inaspettato

In questo esperimento venivano posti su due piedistalli un orsacchiotto e un pallone da calcio. Dopo aver afferrato ripetutamente l’orsacchiotto, le posizioni sui due piedistalli venivano invertite. Si presentavano ora due situazioni sperimentali: nella prima veniva afferrato il pallone, posto sul piedistallo dove precedentemente era stato posto l’orsacchiotto. La cinematica del movimento era dunque la stessa. Nella seconda, invece, veniva afferrato nuovamente l’orsacchiotto. I bambini sotto i 5 mesi di età non reagivano in nessuna delle due condizioni, mentre i bambini sopra i 5 mesi si stupivano quando veniva afferrato il pallone al posto dell’orsacchiotto. Questo dimostra come gli infanti incominciassero ad attribuire delle intenzioni agli agenti esterni, manifestando quell’impostazione teleologica propria dell’uomo.

Lo sviluppo della Teoria della Mente nell’uomo

Teoria della mente, inferenze stati mentali
La mentalizzazione è un processo che cu permette di inferire, talvolta erroneamente, cosa gli stiano pensando

Abbiamo quindi visto che intorno ai 5 mesi si incomincia ad apprezzare l’agentività. Intorno ai 12 mesi si incomincerà a riconoscere anche l’agentività nascosta, dimostrando come i bambini col passare del tempo incrementino le loro capacità di mentalizzazione. Quando però si può affermare che un bambino abbia una teoria della mente sviluppata? Quando riesce ad attribuire ad altri stati mentali differenti dai propri: ed è stato dimostrato questo accada solo intorno ai 4 anni di età. La dimostrazione è stata data attraverso un esperimento definito “Max Task”. Ai bambini veniva presentata la seguente situazione: “Max ha una tavoletta di cioccolato e la mette nell’armadietto verde in cucina, poi va a giocare sullo scivolo. La mamma arriva e sposta la cioccolata nell’armadietto blu, poi se ne va. Max dove cercherà la sua tavoletta di cioccolato?” I bambini sotto i 4 anni di età tendevano a imporre il proprio punto di vista anche a Max, sostenendo che avrebbe cercato la tavoletta di cioccolato nell’armadietto blu, dal momento che sapevano si trovasse lì. I bambini sopra i 4 anni di età, invece, riuscivano a capire ci fosse un livello diverso di conoscenze tra se stessi e il protagonista del racconto, riconoscendo la falsa credenza e sostenendo quindi che Max avrebbe cercato la cioccolata nell’armadietto verde.

È stato però poi anche dimostrato che ci sia una significativa differenza tra livello implicito e livello esplicito: la riconoscenza delle false credenze a livello implicito è stato notato già a 15 mesi. La discriminante è l’utilizzo o meno del linguaggio. D’altronde, sarebbe stato strano pensare che per 4 anni un bambino avesse capacità di mentalizzazione così limitate.

Ultimo passo è il cosiddetto Faux pas, in cui i bambini di 9 anni circa imparano a riconoscere sfumature sociali di inappropriatezza.

Il “Reading the mind in the Eyes Test”: uno strumento per valutare la teoria della mente

RME Test per la teoria della Mente
Il test si basa sulla presentazione di 36 paia di occhi. A ciascuna immagine vengono associate 4 emozioni alternative tra cui scegliere quella che, secondo noi, corrisponde all’emozione provata dall’attore

Col tempo si è voluto creare un test in grado di cogliere le capacità di mentalizzazione degli individui adulti. È stato quindi messo a punto il “Reading the mind in the eyes test”: questo consiste in 36 foto di soli occhi a cui bisogna attribuire la giusta emozione. Grazie al fatto che, solo noi nel regno animale, abbiamo la sclera bianca, ci viene molto più facile inferire lo stato emotivo altrui semplicemente attraverso uno sguardo negli occhi. Il test dimostra una distribuzione normale nella popolazione, e quindi con pochi casi limite: pochi individui quasi per nulla empatici e pochi iperempatici.

Le evidenze neuroscientifiche della teoria della mente

Esperimenti recenti hanno voluto individuare un distretto neurale preciso a cui far risalire la capacità di mentalizzazione. Gli studi hanno portato a localizzare questa capacità soprattutto nella corteccia mediale prefrontale. Nel corso dell’evoluzione della linea filetica della nostra specie quest’area è andata incontro a una notevole espansione e specializzazione: questo in parte dimostra come le capacità di mentalizzazione siano una risposta evolutiva necessaria alla sopravvivenza della nostra specie. Segue anche la celebre teoria del cervello sociale di Dunbar, secondo la quale alcune aree del cervello si sarebbero sviluppate proprio in seguito a problemi di natura sociale. Diversi studi di neuroimaging hanno dimostrato come questa area venga attivata nel momento in cui il soggetto è coinvolto in storie di natura interpersonale, insieme alle giunzioni temporo-parietali e al pecuneo. In particolare, la corteccia mediale prefrontale si attiverebbe nelle intenzioni comunicative. Anche per questo gli studiosi ritengono ci possa essere un collegamento tra la degenerazione di questa area e disturbi dello spettro autistico.

Teoria della mente, cervello
Sezioni cerebrali in cui si possono vedere alcune delle attivazioni nel corso di interazioni sociali

Il collegamento con al Demenza frontotemporale

A quanto pare, il Reading the mind in the eyes Test non si è dimostrato utile solo a calcolare la capacità di mentalizzazione di ciascuno di noi, ma si è rivelato un buon predittore della Demenza frontotemporale. Per meglio spiegare, è stata dimostrata una correlazione positiva tra il volume del polo frontale (un cluster di aree neurali in cui è largamente coinvolta la corteccia mediale prefrontale) e il punteggio al Test di cui sopra. È stato anche dimostrato come il deteriorarsi di queste aree porti alla Demenza frontotemporale, un tipo di demenza molto comune, secondo solo all’Alzheimer. L’esordio è di tipo psichiatrico, e almeno nelle prime fasi della malattia ha sempre una marcata sfumatura sociale, a dimostrazione che queste aree sono coinvolte nella regolazione del comportamento sociale.

Matteo Sesia