Suicidio: una parola, mille verità.
Un atto semplice, spesso premeditato, che oggi più che mai è diventato una scomoda realtà, una realtà che spaventa, che genera incomprensioni, pregiudizi e che purtroppo allontana. Il suicidio o meglio, il desiderio di porre fine alla propria vita, è da sempre presente in tutte le epoche e società portando con sé vedute completamente diverse, dalla più filosofica a quella più sociale, da chi lo interpreta come il diritto umano di programmare la propria morte a chi lo giudica come un gesto di codardia fatto in silenzio, in segreto, nel disperato tentativo di sfuggire alla propria debolezza o all’incapacità di affrontare gli affanni della vita.
Si, perché il suicidio è per molti la via più facile, quella più veloce per allontanarsi dal tutto, dal mondo, dai problemi, da chi si conosce, da chi non si conosce, dall’intero universo e da tutto ciò che quest’ultimo potrebbe offrire.
Larry Brown, scrittore americano, scrisse nel suo libro “92 giorni” una frase destinata a diventare virale tra gli adolescenti, sopratutto nei blog Tumblr ” Dopo un anno di terapia, il mio psichiatra mi disse < Forse la vita non fa per tutti >” una semplice frase che sintetizza in maniera più semplice ciò che scrisse tempo fa Seneca, un gigante della filosofia e letteratura latina , morto anche lui per suicidio, un suicidio, però, in extremis compiuto quasi obbligatoriamente nella speranza di scampare alla morte certa ordinata dall’imperatore romano Nerone, suo ex allievo.
Ogni vena del tuo corpo
L’imperatore, convinto che Seneca avesse volontariamente preso parte ad una congiura contro di lui, lasciò al povero filosofo due possibilità: uccidersi o essere ucciso.
Nonostante si parli di un suicidio “imposto” Seneca fece della “volontà di morire” un tema fondamentale della sua carriera letteraria scrivendo opere magistrali come “De brevitate vitae” o epistole fra cui, famosissima, l’Epistola 70:
“Non è opportuno, lo sai, conservare la vita in ogni caso; essa infatti non è di per sé un bene; lo è, invece, vivere come si deve. Pertanto il saggio vivrà quanto a lungo gli compete, non quanto più può; osserverà dove gli toccherà di vivere, con chi, in che modo e quale sarà la sua attività. Si preoccupa sempre della qualità, e non della quantità della vita: se gli capitano molte cose spiacevoli, e tali da turbare la tranquillità del suo animo, egli si mette senz’altro in libertà. E non lo fa soltanto in casi di estrema necessità, ma appena la Fortuna cominciare a diventare sospetta, considera attentamente sotto ogni punto di vista se non sia quello il momento di porre fine all’esistenza”
Per il filosofo il suicidio non è codardia, è potere poiché non è la quantità ma la qualità, non il numero di anni vissuti ma la felicità contenuti in essi. A che scopo continuare a vivere se la vita non è degna d’essere vissuta? Perché soffrire? Pavese scriveva che la sofferenza è inutile che “soffrire non serve a niente”. Il suicidio non è debolezza ma Forza, la forza e la prontezza di riconoscere il momento in cui l’esistenza umana diventa inutile perché non riserva altro che dolore, un dolore che può essere evitato.
La morte diventa dunque una exitus, una via di libertà , giusta, scontata, apprezzabile, una valida alternativa non da temere ma da tenere sempre in considerazione in quanto la morte, per Seneca, è un aiuto a cui l’uomo deve ricorrere quando la vita diventa invivibile.
“Se l’animo è malato e miserabile, a causa della sua sofferenza, gli è possibile farla finita con se stesso e il suo dolore” afferma
“Perché aspetti che qualche nemico venga a liberarti, distruggendo il tuo popolo, o che un re potente accorra da terre lontane? Da qualunque parte guardi, c’è la fine dei tuoi mali. Vedi quel precipizio? Da quello, si scende alla libertà. Vedi quel mare, quel fiume, quel pozzo? La libertà siede là, sul fondo.”
Il modo in cui il filosofo latino illustra la valenza, e profonda utilità del suicidio sarebbe assolutamente inaccettabile nella società moderna, dove viene descritto come un gesto inaccettabile, da prevenire in qualsiasi momento per non sprecare il dono immenso della vita.
Per il filosofo, invece, il vero dono è avere coraggio, il coraggio di cessare il proprio vissuto
“La libertà è appesa a quello. Vedi il tuo collo, la tua gola, il tuo cuore? Sono vie di scampo alla servitù. Ti mostro forse uscite troppo laboriose e che richiedono molto coraggio e molta forza fisica? Chiedi qual è il sentiero della libertà? Qualunque vena del tuo corpo”
Qualunque vena del tuo corpo scrive, la libertà non è il sangue che vi scorre come simbolo del proprio esserci, del proprio esistere, ma una lama che può bloccarne definitivamente il flusso. Questa è la libertà: il potere di fermare il Tutto.
Ovviamente altri filosofi o personaggi celebri hanno preso parte al tema del “darsi la morte” e contrariamente a ciò che può sembrare ora, la maggior parte di loro ripudiano o non considerano il suicidio una scelta razionale
Tra ribellione e rinuncia alla volontà di vivere.
“Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”
Albert Camus è stato un altro grande filosofo che ha dedicato buona parte delle sue opere allo stesso tema, una in particolare “Il mito di Sisifo” nel quale si racconta della punizione subita dal protagonista, una punizione assurda che lo condanna ad una vita altresì assurda che si svolge allo stesso modo dal mattino alla sera, una vita vissuta a spingere un macigno
su per una montagna cercando, invano, di raggiungerne la vetta. Ecco la vita di Sisifo, far sì che le rocce arrivino in cima per poi rincorrerle una volte che queste, immancabilmente scivoleranno giù.
Il mito di Sisifo non è altro che una metafora della vita umana, vissuta per lo più in maniera banale ripercorrendo la stessa routine ogni giorno. Qual è, quindi, lo scopo di tutto ciò? Perché vivere una vita assurda, piena di sofferenze, dolore, sacrifici, se poi si considera che tutto finirà con la morte? Perché non morire subito e risparmiarsi tanta fatica inutile? Perché, il vero segreto secondo Camus non sta nel suicidio ma nel trovare una ragione, un motivo per il quale la vita abbia senso, una ragione che dia valore a tutto, anche al dolore stesso.
“Il faut imaginer Sisyphe heureux “ scrive Camus “Bisogna immaginare Sisifo felice”
Come disse Nietzsche ” Di fronte ai problemi della vita bisogna rispondere con più vita” più la vita è difficile e più bisogna amarla, solo così è possibile ribellarsi all’inutilità, all’assurdità dell’esistenza. Bisogna trovare uno scopo, un motivo che renda la lotta dignitosa, che dia all’uomo un motivo per continuare ad essere felice; non suicidarsi ma ribellarsi
“Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo”
Tornando indietro nel tempo è possibile far riferimento ad un altro filosofo, Schopenauer, che condivide la stessa idea di Camus. Schopenauer non contempla il suicidio, bensì lo ripudia ( anche se non lo condanna) poichè quest’ultimo non è altro che la massima espressione della miseria umana. Il pensiero di Schopenauer, si sa, è fortemente pessimista essendo il pessimismo cosmico il cardine fondamentale di tutta la sua filosofia, Schopenauer aveva una visione profondamente negativa dell’esistenza vista solo come dolore a causa della volontà, la forza inumana, che spinge l’uomo verso un bisogno inappagabile di possessione il quale lo rende misero ed infelice per sempre schiavo della materialità.
E’ vero che il precursore dell’esistenzialismo riconosce il suicidio come un ipotetica via di scampo, ma riconosce anche il suo lato effimero. Il suicidio per Schopenhauer non è forza ma debolezza poiché determina la capacità dell’uomo di soccombere alla volontà rendendolo schiavo di quest’ultima .Non è la voglia di liberarsi della vita in generale, ma la voglia di scappare da quella vita che procura sofferenza, infatti se l’uomo avesse un’alternativa continuerebbe a vivere.
Emil Cioran : L’inconveniente di essere nati
Il pensiero più spietato viene, però, da un’altro personaggio, un filosofo meno conosciuto e meno studiato di quelli appena citati, nato in Romania ma naturalizzato francese : Emil Cioran.
Cioran è forse il filosofo che più ha coltivato un idea di nichilismo puro e totalmente passiivo amante di Leopardi che considerava ” un fratello spirituale” avido lettore di Nietzsche, Schopenauer e Camus, il pensiero di Cioran è il più profondo, sprezzante e allo stesso tempo fermamente lucido.
Tra le sue opere più importanti è bene citare “L’inconveniente di essere nati ” che mostra la sua idea di assurdità e crudeltà della vita. Ovviamente, in quanto nichilista, la sua filosofia si presenta come pessimista, violenta e completamente estremista con frasi del tipo “Non mi perdono di essere nato “ o “Abbiamo perduto nascendo quanto perderemo morendo. Tutto”.
Per il filosofo la vita è un dono avvelenato, intaccato alla radice dal male, creato solo per procurare mali e affanni. L’uomo di Cioran è un personaggio debole, maledetto, condannato alle sofferenze eterne dalla vita dalla quale non c’è scampo, inoltre afferma che ” Non c’è nulla che giustifichi l’essere vivi” poiché la vita stessa appare dominata dal ” Solido Nulla” l’unico valore in cui Cioran crede fermamente.
Non è certo un caso che il proprio vissuto sia stato per il pensatore rumeno pieno di pulsioni suicide, nonostante non sia mai arrivato a compiere il tanto agognato atto ” Perché la morte mi disgusta tanto quanto la vita “ .Il solo suicidio che valga la pena di essere portato a termine è quello senza motivazione, sena ragione alcuna, un suicidio innocente, bianco, puro come l’odio per la vita. Secondo Cioran, colui che si suicida per fuggire dai mali dell’esistenza è solo l’ennesima vittima del misero destino umano poiché, esattamente come affermava Schopenhauer, la sua volontà non sarebbe quella di rinunciare alla vita ma solo al male che ne deriva, in altre parole se la vita non procurasse sofferenza l’uomo non sentirebbe il bisogna di rinunciarvi. Ecco perché per il filosofo il vero suicidio è quello che scaturisce da un odio incondizionato e disinteressato nei confronti della vita .
Il giardino delle vergini suicide
Il suicidio chiaramente non è un tema strettamente filosofico o letterario, bensì è un mainstream, uno dei temi più vagheggiati ed esplorati di tutti i tempi sopratutto nelle arti, una di queste il cinema.
Sicuramente tutti abbiamo visto o abbiamo sentito parlare almeno una volta del cult anni ’90 “Il giardino della vergini suicide” il film che ha lanciato la carriera da regista di Sofia Coppola famosa sopratutto per il film ” Marie Antoniette” . La storia è ispirata a vicende realmente accadute nel 1974 in un quartiere borghese americano, prima il romanzo firmato Jeffrey Eugenides e successivamente la pellicola cinematografica che ancora oggi è una delle proiezioni voyeuristiche più riuscite degli ultimi anni.
La trama è sostanzialmente molto semplice, tutto si basa su un gruppo di cinque sorelle costrette a vivere in un clima familiare profondamente rigido e conservatore a causa delle severissime regole imposte dalla madre. Cecilia, la più giovane, è la prima sorella a suicidarsi, sì perché la narrazione termina con la morte, voluta e programmata in maniera alquanto macabra, di tutte le giovani.
In questo caso il suicidio delle ragazze viene visto come una via di fuga, una sorta di tramite per raggiungere quella libertà di cui è impossibile godere in vita, a causa della madre troppo intransigente ed poco comprensiva. Nonostante le ragazze cerchino più volte di ribellarsi, infrangendo il corpi fuoco, partecipando al ballo scolastico, avvicinandosi ad un gruppo di giovani ragazzi che finiscono per diventare i testimoni dei loro suicidi, le cinque sorelle conoscono una realtà sempre più soffocante, oppressiva, che non lascia loro altra scelta se non quella di rinunciarvi.
L’ultima scena del film, ambientata 25 anni dopo, vede i poveri ragazzi ancora profondamente influenzati da quanto visto tempo prima mentre cercano di ricostruire l’accaduto, accennando a come le giovani avessero fatto riferimento alla volontà di scappare di casa per viaggiare tutti insieme verso una vita migliore.
La via di fuga, però, non è un auto da rubare per arrivare in una nuova città ed iniziare una nuova vita, bensì è un suicidio, terribile e traumatizzante che destabilizza l’intero quartiere.
E, la libertà non è un viaggio da fare insieme verso la vita, bensì un percorso individuale breve, permanente ed irrevocabile : la morte.
Ariana Ciraci