“Così discesi del cerchio primaio giù nel secondo, che men loco cinghia e tanto più dolor, che punge a guaio”. Così Dante ci introduce al V canto dell’Inferno e ai suoi protagonisti destinati a diventare immortali personaggi della letteratura italiana: Paolo e Francesca, probabilmente i più amati e compatiti all’interno dell’intero poema dantesco. La loro storia è semplice e ci viene raccontata da Francesca stessa accanto ad un affranto Paolo: lei, donna giovane e bella, sposa in matrimonio combinato Gianciotto, brutto, vecchio e incapace di provare amore, Paolo, fratello dell’uomo, giovane e prestante un giorno la vede e da lì la tragedia ha inizio. Un amore travolgente si impadronisce di loro, si incontrano, decidono di leggere insieme la storia di Lancillotto e Ginevra, si fanno audaci, “galeotto fu il libro e chi lo scrisse” dice Dante, ma la loro felicità sarà destinata ad una brevissima durata: Gianciotto li vede e preso da furia omicida li uccide entrambi. Così sono giunti all’inferno, eternamente legati, eternamente innamorati eppure allo stesso modo eternamente dannati, macchiati di una colpa mai espiata, di un peccato mai perdonato. Dante proseguirà il suo viaggio verso Dio e la purificazione turbato da questo incontro (seppure non mancherà di esprimere la sua condanna nei confronti dei due adulteri già all’inizio del canto successivo), ma noi ci fermeremo qui nel girone dei lussuriosi ancora un po’ per sottoporli a processo lasciandoci trasportare insieme a loro dal vento maledetto che li punirà per sempre.
Il giudizio greco, Eschilo giudice.
A livello filosofico-letterario il concetto della colpa e della responsabilità è stato ampiamente discusso e analizzato dalla tragedia greca. In particolare si può portare ad esempio l’Orestea di Eschilo, unica trilogia legata giuntaci completa composta da: Agamennone, Coefore, Eumenidi. In quest’opera viene raccontata la vicenda degli Atridi e della loro maledizione: Agamennone dovendo partire per la guerra di Troia, trova venti contrari e sacrifica la figlia Ifigenia per cambiare la situazione, al suo ritorno la moglie Clitennestra vendica questo omicidio uccidendo il marito, ma suo figlio Oreste, obbligato dal dio Apollo, a sua volta assassinerà la madre il cui spirito lo perseguiterà fino all’intervento di Atena che, istituendo il primo tribunale della storia, con il suo voto dichiarerà Oreste innocente, liberandolo dunque dalla maledizione della sua famiglia. L’episodio è importante perché chiarifica le convinzioni filosofiche di Eschilo riguardo alla colpa e alla responsabilità: egli crede che l’uomo sia sempre spinto dal dio nel compiere le sue azioni, ma quella del dio non è altro che una spinta, un incentivo a fare ciò che già di per sé l’uomo farebbe, agendo dunque come una sorta di catalizzatore dell’azione umana. Questa però non è giustificata dal dio e di conseguenza si configura, nel caso in cui fosse un’azione malvagia, come uno squilibrio universale, una colpa che macchia l’uomo che l’ha commessa e che può essere espiabile solo tramite la punizione, da parte di un altro uomo, del colpevole andando dunque a creare un circolo vizioso potenzialmente infinito che infatti solo l’intervento diretto della divinità può spezzare. La colpa dunque genera altra colpa e si trasmette di generazione in generazione come una maledizione o una malattia incurabile. Ma l’uomo è veramente colpevole, o meglio, responsabile di ciò che fa se la divinità stessa lo spinge, per imperscrutabili motivi, ad agire? La risposta non è semplice, ma per provare a darla sembra opportuna la distinzione fra responsabilità soggettiva ed oggettiva: la prima sarebbe data dalla volontà soggettiva dell’uomo ad agire e non sarebbe quindi, nell’esempio portato, del tutto attribuibile ai personaggi della tragedia, la seconda sarebbe data invece dai fatti, dalle azioni effettivamente compiute e dai loro effetti, indipendentemente dai moventi e dalle condizioni psicofisiche dell’agente. In quest’ottica possiamo quindi dire che Paolo e Francesca non hanno responsabilità soggettiva in quanto le loro menti sarebbero state offuscate dall’amore, dio potentissimo per i greci, ma ciò non cancellerebbe la loro responsabilità oggettiva e di conseguenza la loro colpa. Eschilo quindi sarebbe categorico e d’accordo con Dante: colpevoli e dannati.
Nel mondo della tragedia greca il concetto di colpa è continuamente ripreso e può essere ritrovato praticamente in ognuna delle opere dei tre autori Eschilo, Sofocle ed Euripide. In particolare Sofocle nel celebre Edipo re sembra domandarsi fino a che punto l’uomo sia colpevole nel caso in cui il suo destino sia già stato scritto dal dio. A questo punto però, tralasciando le possibili risposte sofoclee, sembra opportuno spostarsi in ambito cristiano andando ad interrogare filosofi quali Agostino e Boezio in veste di giudici.
La filosofia cristiana: Agostino e Boezio interrogati.
Agostino da Ippona arriva a dare risposta al quesito di Sofocle partendo dalla riflessione sul male: per lui infatti esistono tre forme di male, il male metafisico (mancanza di bene), quello morale e quello fisico, in nessun caso Dio volontariamente metterebbe il male nel mondo, nel caso fisico infatti, assumendo una posizione quasi eschilea, Agostino dice che è causato dal peccato originale il quale non sussisterebbe più in noi come colpa, ma continuerebbe la pena ad essa collegata, per quanto riguarda il male morale invece, questo non è voluto da Dio in quanto a noi è stato dato il libero arbitrio poichè Dio ci preferirebbe volontariamente cattivi piuttosto che passivamente e apaticamente buoni, l’uomo sarebbe dunque libero di scegliere il bene o il male (in contrasto con la posizione socratica secondo cui, se conosciuto, non si può fare altro che il bene, dal momento che quest’ultimo avrebbe un potere attrattivo invincibile). Questa concezione va però a cozzare con il concetto di onniscienza divina: in effetti se Dio conosce tutto, compreso il nostro futuro, siamo veramente liberi di agire? Questa questione verrà colta e risolta da Anicio Manlio Severino Boezio. Per affrontare il dilemma, Boezio ritiene necessaria una distinzione fra necessità assoluta e necessità conseguente, la prima sarebbe propria di ciò che non può essere diverso da ciò che è, la seconda invece di ciò che, posto qualcosa, non può non conseguirne. L’onniscienza divina quindi sarebbe necessitante per la responsabilità umana solamente nel senso conseguente: infatti, posti tutti gli elementi presenti nella creazione, l’uomo agisce in un certo modo. Dio sarebbe quindi come un uomo in cima ad una vetta altissima che guardi a valle: vede tutto ciò che accade e ne comprende i motivi, ma la responsabilità rimane dell’uomo che, nonostante possa avere dei moventi o dei motivi anche pressanti per compiere una determinata azione e quindi eventualmente macchiarsi di una colpa, ha sempre e comunque la facoltà di scegliere e di conseguenza è sempre responsabile di ciò che fa. Se Dio infatti sta fuori dal tempo e potremmo dire che vede l’intera storia del cosmo come una diapositiva statica, per noi il tempo esiste ed esiste un futuro, così, essendo esseri viventi nel tempo, la possibilità di scegliere il nostro domani è sempre presente e la responsabilità di ciò che ne deriverà sempre nostra. Anche da parte di Agostino e Boezio, dunque, viene un voto unanime di condanna.
Ai posteri l’ardua sentenza.
Le cose certo non andrebbero meglio se ci appellassimo ad altri giudici quali Aristotele, che condannerebbe gli amanti due volte, prima perchè “ubriachi d’amore”, poi per l’adulterio consumato, o MacIntyre, neo aristotelico contemporaneo che sostiene che la vita umana sia unica poiché raccontabile come un’unica storia e, in quanto tale, esclude la possibilità di un cambiamento e quindi della cancellazione di una colpa precedente. Ma allora perché siamo così portati a compiangere Paolo e Francesca? Perché ci sembra che Dante in fin dei conti sia stato ingiusto ad assegnare loro un posto all’Inferno? Forse perché Gianciotto viene raffigurato come un uomo spregevole, forse perché Francesca è stata obbligata a sposarlo, forse perché la sua azione è stata dettata dall’amore che ci sembra un sentimento puro in nome del quale è possibile giustificare anche il tradimento. Forse sono queste le attenuanti che ci portano a deresponsabilizzare gli amanti danteschi, eppure la colpa rimane, la macchia non è stata lavata, Gianciotto ha giuridicamente ragione e se ci mettessimo per un attimo nei suoi panni, forse il nostro giudizio non sarebbe più così fermo e comincerebbe a vacillare. Forse quindi il perdono o la condanna dei due personaggi è anche una questione di sensibilità, di amore nei loro confronti o di antipatia, di pietà o di odio, tutti sentimenti che possono spingerci a farci propendere per una posizione piuttosto che per un’altra, per l’assoluzione o per la condanna, non solo in questo processo fittizio, ma anche nella vita reale nella quale a volte davvero può diventare difficile distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è, ciò che merita il dono del perdono da ciò che invece è tanto basso da non esserne degno.
Lorenzo Delpiano
Socrate è un uomo senza tempo. Quello che dice è eterno. Valeva allora e varrà per sempre.E’ la forma più evoluta raggiunta dal pensiero umano.Dante è un uomo del suo tempo. Elogio della vendetta e fautore della condanna eterna per un bacio lo fanno equiparare a un talebano o a un autore del delitto di femminicidio,come modo di pensare. Questo per il contenuto. Per la forma non c’è nulla da aggiungere a quello che tutti sanno: è il + grande