Nel suo ultimo articolo sul New York Times, l’artista cinese Ai Weiwei attira l’attenzione su una domanda che è necessario continuare a porre: ovvero, cosa significa essere umani. Bisogna rivalutare la nostra umanità in continuazione per definirci davvero. Auto-definirsi, in quanto uomini, è la base della morale e della filosofia pratica. Se si perde di vista questa necessità, la domanda « Cosa significa essere umani? » perde il suo senso, e l’unica riposta che le si può dare diventa: niente.
« I want the right of first man » scrive il poeta turco Nazim Hikmet nella sua poesia Inno alla vita. É la citazione che apre il documentario dell’artista cinese Ai Weiwei, Human Flow: ed è la frase che gli permette di concentrarsi non solo su cosa si intende con diritti, ma sopratutto su cosa si intenda con uomo. Dopotutto, prima di comprendere cosa siano i diritti dell’uomo, è necessario sapere che cosa sia l’uomo, e che cosa significhi essere umani.
Ai Weiwei è nato in Cina nel 1957 e ha esercitato lì la sua professione d’artista fino al 2011. Nell’aprile di quell’anno, tuttavia, è stato imprigionato per opposizione al regime. Rimasto in prigione per circa tre mesi, è espatriato poi nel 2015 in Germania quando, dopo quattro anni, gli è stato restituito il passaporto. Attivista per i diritti umani e ambasciatore di Amnesty International, ha realizzato nel 2017 il documentario intitolato Human Flow, presentato alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Si tratta di un documentario che racconta il viaggio dei migranti in ventitré Paesi: dall’Afghanistan alle coste siciliane, dal Kenya all’Iraq, dall’aeroporto di Berlino al confine tra Messico e Stati Uniti. Flussi migratori che investono il Mediterraneo, ma anche le norme e le fondamenta dell’occidente; un “flusso umano’’ che non si può più ignorare.

Ai Weiwei stesso si vede come « un rifugiato sin da quando sono venuto al mondo ». Ed è esattamente ciò che gli ha permesso di comprendere con molta più lucidità di altri quanto sia importante la definizione di umanità e l’atto di auto-definire sé stessi.
« Per me, è chiaro che i passaggi attraverso diversi contesti sociali, politici, culturali ed economici – come artista in Cina, come prigioniero politico e ora come un espatriato – mi abbiano obbligato a cambiare e aggiustare più volte la mia idea di cosa sia un essere umano. »
L’idea di alzare confini e muri è ciò che deteriora la nostra idea di umanità: tende a conferirci l’abitudine di tracciare linee, per esempio, tra chi può far parte di quest’umanità e chi no. Al contrario, la necessità che abbiamo è quella di capire che l’umanità è una sola. Da qui, l’importanza della domanda « che cosa significa essere umani ». Domanda complessa, che richiede tutta la nostra esperienza per ottenere una risposta che, nel migliore dei casi, è destinata a cambiare non appena giriamo un nuovo angolo.

« L’unico modo per rispondere a questa domanda è di esaminare come una persona vede sé stessa e gli altri attraverso le condizioni culturali, sociali, politiche ed economiche del suo tempo. »
In altre parole, non esiste qualcosa come un “essere umano’’ nell’astratto. Non può trattarsi di un concetto puro e fine a sé stesso, o di un ideale al quale bisogna tendere. Piuttosto, è un’idea che si crea in noi secondo due parametri: ciò che siamo, e ciò che vogliamo essere.

Ciò che siamo è l’indispensabile punto di partenza, la base senza la quale non si va da nessuna parte. Per questo evitare la domanda è un terribile errore. Molti dei disaccordi politici e culturali che viviamo e che vediamo nel mondo nascono dalla riluttanza nell’affrontare questo interrogativo chiaramente. « Chi sono io in quanto essere umano », spesso, è una domanda che fa paura. Ciò che vogliamo essere è in parte il punto d’arrivo. Solo in parte perché, una volta arrivati lì, sarà inevitabile voler ripartire per arrivare da un’altra parte. Nel momento in cui non abbiamo più un’idea di chi vogliamo essere, dovrebbe scattare un campanello d’allarme: o siamo morti e il problema è risolto, o siamo disillusi e seduti sulla nostra noia e boria ed è il momento di rialzarsi.
Inevitabilmente, quest’idea di umanità è destinata a cambiare secondo le esperienze che viviamo, i luoghi in cui abitiamo, e altre decine di condizioni che fanno ognuno di noi l’essere umano che è. Detto altrimenti, non esiste l’essere umano nell’astratto perché un umano fuori da ogni contesto smette in qualche modo di essere tale. L’essere umano realizzato, si potrebbe dire, lo è nell’azione e nella parola, nei comportamenti che intraprende in condizioni empiriche.
Ma possiamo comunque provare a dire in cosa consista l’umanità? Quali sentimenti, azioni, parole sono più suscettibili di dare un significato all’idea di essere umani?

Dan Ariely, autore e professore psicologia alla Duke University, sostiene che il cuore della nostra “umanità’’ risieda nell’empatia. Secondo la definizione del dizionario, l’empatia è la capacità di comprendere a pieno lo stato d’animo altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore. Si attiva davanti ai sentimenti degli altri: quando sono positivi, ci rende felici; e quando sono negativi, ci porta a soffrire. Fa parte anche dell’esperienza non solo umana, ma anche animale. Perché dovrebbe allora caratterizzare il concetto di umanità?
Perché, sostiene Dan Ariely, l’empatia nell’uomo ha anche la caratteristica di causare un rifiuto della nostra umanità. Nel momento in cui l’empatia verso gli altri sopratutto in situazioni di dolore diventa troppo intensa, tendiamo a distogliere lo sguardo per bloccare il meccanismo dell’empatia. Succede per esempio quando incontriamo un senza tetto per strada: fissiamo avanti, consapevoli che proveremmo compassione se incrociassimo il suo sguardo. Il che significa che diventiamo, crescendo, più bravi a distogliere lo sguardo quando qualcuno soffre per bloccare il meccanismo dell’empatia. La domanda si allarga e diventa, allora, « Quale tipo di umanità sceglieremo, collettivamente e individualmente? ». Ci alleneremo a distogliere lo sguardo, o apriremo gli occhi al dolore degli altri, accettando la sensazione che ci sia qualcosa da fare?
Alla luce di questa teoria, si può comprendere più facilmente perché secondo Ai Weiwei non dobbiamo smettere di porci la domanda “cosa significa essere umani’’, anche perché molti problemi che caratterizzano attualmente il mondo, se analizzati a fondo, ci riportano sempre lì. Anche – e sopratutto – uno degli argomenti più mainstream degli ultimi tempi, cioè le proteste anti-migranti. La domanda in questo caso può essere duplice: quali sono i meccanismi che portano a pensare che i migranti siano meno esseri umani di altri, tanto da voler rifiutare loro l’accoglienza; e se un essere umano che non dimostra empatia, ma ostilità ad un altro essere umano in difficoltà, sia ancora umano in senso stretto.

Non dobbiamo dimenticare che concetto di umanità ha una particolarità fondamentale: include ognuno di noi. Non possiamo scegliere, nel bene e nel male, a nostro piacimento, chi ne faccia parte e chi no. Non importa quanto possano diventare spaventosi gli affronti politici e culturali che la storia può produrre: la nostra ultima, irriducibile risorsa, cosa che sarebbe ovvia se fossimo piazzati improvvisamente in un deserto, è il rispetto per la dignità umana.
La risposta alla domanda dipende quindi da come definiamo noi stessi, da ciò che vogliamo diventare e da come trattiamo gli altri che condividono il nostro ambiente – che pullula di differenti culture e religioni. Siamo perduti nel momento in cui perdiamo la capacità di pensare autonomamente e la capacità di valutarci e definirci in modo libero.